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“Questo è un lavoro da donne!”

“Questo è un lavoro da donne”! Quante volte l’abbiamo sentito dire? Dalle nostre parti tante. Quando si spiricudda l’arancia appena raccolta (cioè si monda dal peduncolo per evitare che le foglie si strapazzino durante il trasporto fino al mercato), oppure quando si estrae lo zafferano dai delicati fiori di crocus, oppure quando si raccoglie l’origano in mazzetti. E gli esempi potrebbero continuare. Diciamolo francamente, il “lavoro da donne” è quasi sempre assegnato da uomini che, come orgogliosi della loro fatica fisica relegano il lavoro femminile a mansioni più soft, pazienti e lenti. È come se in quel cantuccio confortevole e poco faticoso si tenesse a bada una forza difficile da gestire. Dagli uomini, ovviamente.

Però succede che qualche volta quella forza viene fuori prepotentemente. È il caso di Erina Triolo, 57 anni e una energia straripante.
Dopo aver allevato due figli insieme al marito Rino e non trovare più stimolante stare dietro al negozio di ottica, si sono guardati intorno e, neanche troppo lontano, hanno (ri)visto l’appezzamento agricolo che è appartenuto ai genitori di Erina. Quattro ettari di superficie vitata che ha permesso a Erina e ai suoi fratelli di crescere in una famiglia serena.

Erina, qual è il tuo ricordo più remoto che riguarda la campagna?
«Ne ho due, entrambi molto nitidi, nonostante parecchio lontani nel tempo: sotto un grande albero di gelsi di fronte casa passavo intere ore a giocare a mani nude con la terra e l’acqua; la modellavo per creare forme immaginarie che si muovevano in altrettanti mondi immaginari.
Così come anche amavo tanto rifugiarmi tra le ricche fronde della vite, che in piena stagione si espandevano talmente tanto che nella mia fantasia di bambina diventavano capanne. Mi piaceva accucciarmi lì, immaginando di uno spazio tutto mio.
Sia l’albero che quella vigna oggi non ci sono più. Mi piace pensare che quel desiderio di trovare riparo si sia concretizzato oggi, da adulta. Così ho messo a dimora un nuovo albero di gelso e impiantato una nuova vigna».

A cosa imputi il fatto di aver cambiato radicalmente stile di vita per dedicarti a tempo pieno alla coltivazione?
«Al caso, almeno così mi è sembrato allora. Tutto è cominciato in un giorno di pioggia: la gita prevista per quel giorno di festa saltò e mia sorella propose di fare una passeggiata a piedi verso la Montagnola, la tenuta che mio padre coltivò per tutta la vita.

Io non ero più tornata lì (avevo il liceo prima, i miei amici e Rino, che dopo il matrimonio affiancai nella sua attività commerciale) da quando mio padre non ebbe più la forza di lavorare e mia madre affidò i lavori a un mezzadro. L’impatto fu orribile: quello che rimaneva della casa era un rudere con le porte divelte e degrado ovunque. Una delusione cocente: il mio ricordo del gelsomino profumato davanti casa si sovrappose a quello scenario di abbandono.
Questo choc mi fece piombare in un sentimento di prostrazione e di impotenza. Rino cercò invece di vincere questa delusione proponendomi piccoli interventi di bonifica.
Senza grandi aspettive ci mettemmo al lavoro. Iniziammo dal pianterreno, rendendolo abitabile fin tanto da passare qualche ora in campagna, poi ci guardammo intorno…»

Quale è stata la prima cosa che hai piantato?
«Ventiquattro alberi di melograno. Sono stati come mettere la bandierina di appartenenza, come uno scalatore quando conquista una cima. Attraverso quei ventiquattro alberelli ci siamo resi conto che la Montagnola era qualcosa di più che un luogo dove trascorrere qualche ora all’aperto. È così che abbiamo preso la decisione di prenderci cura totalmente di questi quattro ettari. E abbiamo iniziato».

Con quali risultati?
«Presi da un entusiasmo quasi febbrile in un solo anno abbiamo cambiato il volto alla tenuta: non più i seminativi che il mezzadro si ostinava a piantare con esito sempre deludente ma 1600 piante di uva da tavola, 650 alberi di mandorle, una carciofaia e, in aggiunta alle prime 24, altre 400 piante di melograno.

La sera io e mio marito andavamo a dormire con una stanchezza mai provata prima ma allo stesso tempo con una soddisfazione che ci riempiva il cuore e che ci incitava a fare sempre meglio. Come con i mandorli.

Cioè?
«Il primo innesto, fatto da una squadra chiamata per l’occasione, è stato un vero fallimento. Grazie alla consulenza di Valdibella, invece, ho imparato a farlo io con pazienza e ostinazione. Senza pensarci troppo mi sono buttata nel complicato mondo dell’innesto. Ben 241 piante innestate con successo hanno decretato il mio definitivo ingresso nella coltivazione!»

Qual è la più bella sorpresa che ti ha regalato l’agricoltura?
«Scoprire che ciò che cresceva dalla terra e dal mio lavoro aveva il valore aggiunto di essere cibo “pulito”. Lo capii quando tornai a mangiare i carciofi senza accusare nessun disturbo. Prima mi erano proibiti».

Sei consapevole che la maggior parte dei tuoi “colleghi” agricoltori sono uomini. Ciò ti intimorisce?
«No, anzi sono i miei mentori. Ho sempre visto mio padre lavorare ma non mi sono mai occupata neanche di far crescere il basilico in un vaso. Da loro ho imparato e continuo a imparare tanto. Nonostante abbia una casa in paese da portare avanti con tutto ciò che questo comporta, ho instaurato un legame nuovo – o forse antico – con questo luogo e mi manca anche per un solo giorno che sono costretta in altre incombenze».

Quindi grandi soddisfazioni. Qualche rimpianto?
«Io e Rino abbiamo piantato due alberi di noci. Ci vorranno vent’anni per raggiungere l’altezza di quelli che io mi ricordavo da bambina. Mi dispiace non averlo fatto prima, ma è importante averlo fatto adesso. Noi saremo qui a vederli crescere».

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